Esamopoli e Concorsopoli
L’Italia degli esami di Stato e dei concorsi pubblici truccati
Antonio Giangrande: “Dopo tanti anni, come volevasi dimostrare, in Italia, pur con la ragione, non si riesce a cavare un ragno dal buco, anzi sì è cornuti e mazziati e ti dicono, in aggiunta, subisci e taci. Gli aspiranti avvocati fuggono in Spagna o in Romania per abilitarsi. Questo per difendersi dai boiardi della lobby forense. Poi ci sono, tra gli altri, i concorsi truccati in magistratura e per diventare dirigente scolastico (preside). Inoltre, paradosso tutto italiano, i ricercatori universitari ingiustamente bocciati al passaggio di ruolo sono costretti ad insegnare”.
«Siamo un paese di bocciati e di scartati agli esami di Stato ed ai concorsi pubblici, o, magari, qualcuno ha interesse a farci passare come tali. Il fatto che io sputtani il sistema, rendendo pubbliche le malefatte dei boiardi di caste e lobbies, fa sì che per ritorsione da decenni non mi abilitano all’avvocatura, non correggendo i miei compiti. Inoltre i magistrati mi denunciano per diffamazione continuamente, senza mai conseguirne condanna». Così afferma il dr Antonio Giangrande, noto saggista di fama mondiale, che sul tema ha scritto dei libri, e presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, sodalizio antimafia riconosciuto dal Ministero dell’Interno. Associazione fuori dal coro e fuori dai circuiti foraggiati dai finanziamenti pubblici. «Esemplare è la mia storia identica a milioni di altre italiche storie. Da anni mi rivolgo alle istituzioni competenti ed ai Parlamentari italiani ed europei con funzioni di vigilanza ed inchiesta. Non parliamo poi delle denunce insabbiate dai magistrati. Al primo tapino che si rivolse a me, chiedendomi aiuto e non avendo potere di intervento, premonendo il futuro, gli dissi che con questa gente e le istituzioni che li coprono non avrebbe cavato un ragno dal buco: “sarai cornuto e mazziato”, gli dissi. Quindi cari bocciati e scartati Italia, fatevene una ragione. Con questi italioti mai nulla cambierà».
Abogados “spagnoli” e Avocat “rumeni” solo di nome, ma a tutti gli effetti avvocati con nazionalità italiana. Un fenomeno poco rassicurante per l’accesso alla professione forense che di fatto secondo i boiardi nostrani è una scorciatoia per eludere l’esame di abilitazione nazionale. Se le leggi e le prassi in Italia fossero fatte nell’interesse di tutti, questi costosi oneri non cadrebbero sulle spalle dei cittadini meno protetti e sulle loro famiglie. Per qualcuno di fatto una scorciatoia che elude l’esame di abilitazione nazionale che non si riesce a superare mentre per altri è un diritto di ciascun cittadino europeo. Fatto sta che sempre più giovani buttano la spugna già al secondo tentativo e scelgono la via facile dell’abilitazione professionale all’estero, dove non c’è alcun esame.
Diventare avvocati senza sostenere l’esame di abilitazione professionale: è la via che scelgono molti laureati italiani che «emigrano» in Spagna e Romania il tempo necessario per conquistare il titolo e tornare a esercitare la professione forense in Italia, scrive “Il Giornale di Sicilia”. A rivelarlo sono i dati diffusi dal Consiglio nazionale forense, che da tempo sta conducendo una battaglia contro questo fenomeno, arrivata sino a un ricorso alla Corte di giustizia delle Comunità europee. Il caso nasce dalla Direttiva europea 98, recepita dall’ Italia nel 2001 che consente agli avvocati «comunitari» di svolgere l’attività forense in uno Stato europeo diverso da quello nel quale gli stessi hanno conseguito il titolo professionale. L’obiettivo è quello di promuovere la libera circolazione degli avvocati europei che sono chiamati «stabiliti» nei Paesi ospitanti. Ma la direttiva è di fatto diventata, lamenta il Cnf, «lo strumento utilizzato da parte di tanti aspiranti avvocati italiani per eludere la disciplina interna ed, in particolare, per sottrarsi all’esame necessario per poter acquisire la necessaria abilitazione all’esercizio della professione forense in Italia». Una rilevazione effettuata presso tutti i Consigli dell’ Ordine degli avvocati ha accertato che ben il 92% degli avvocati iscritti nell’elenco degli avvocati stabiliti sia di nazionalità italiana. Tra questi l’83% ha conseguito il titolo in Spagna e il 4% in Romania.In numeri assoluti, su un totale di avvocati stabiliti pari a 3759, 3452 sono di nazionalità italiana. Gli Ordini forensi che contano il maggior numero di avvocati «stabiliti» di nazionalità italiana, iscritti nell’elenco speciale, sono Roma (1058), Milano (314), Latina (129) Foggia (126).
Naturalmente, il fine della legge europea è quello di favorire la libera circolazione delle professionalità entro i confini dell’Unione, e permettere loro di svolgere il proprio lavoro in tutti gli Stati aderenti. Si tratta, nello specifico, della direttiva 98/5/CE, che l’Italia ha adottato con il decreto legislativo 2 febbraio 2001 n. 96. Anche la professione forense, infatti, come tutti gli altri elenchi presenti in Italia, si è dotata di un registro speciale per l’inserimento dei legali formati in altri Stati europei.
Come evidente, però, sorgono diverse perplessità sugli effetti della norma, come denota il segretario Cnf Andrea Mascherin: “È evidente che queste pratiche falsano la corretta concorrenza tra avvocati nei Paesi Ue, ma soprattutto mettono a rischio i diritti dei cittadini che si affidano a questi professionisti per la loro tutela”. Questo, finirebbe per tradursi in differenze di non poco conto tra chi si sobbarca dell’intero iter italiano e chi, invece, preferisce percorrere la via straniera, più breve e semplice: “I giovani aspiranti avvocati italiani che seguono la corretta procedura dell’esame di abilitazione sono svantaggiati rispetto a coloro che ottengono il riconoscimento di un titolo acquisito all’estero con scorciatoie e furbizie”.
Ci si potrebbe scandalizzare, però, se l’iter italiano fosse legale.
“Nessuno parla più di “diritto libero” e basta il fatto che quella fosse la teoria ufficiale nazista per rendere non più spendibili tali concetti – afferma Mauro Mellini – Ma che cos’è la teoria dell’“abuso del diritto”? Io non ho la possibilità di andarlo a proclamare nella sede di qualche Arcivescovado, nemmeno ora (e forse proprio ora) che c’è un Papa gesuiticamente tollerante e progressista. Ma non esito ad affermare che questa storia dell’abuso del diritto dovrebbe essere definita la “teoria nazista del diritto libero all’italiana”. Il diritto è il diritto, sia quello civile, sia, soprattutto, quello penale “nullum crimen, nulla poenia sine praevia lege penali”. Se vogliamo parlare di diritto dobbiamo risalire alla norma, stabilire la sua certezza e ad essa attenerci e con essa misurare il lecito e l’illecito. Siamo un Paese civile! Anzi, siamo “la culla del diritto”, mica una società barbara di cui parlava Calamandrei. Continuiamo ad affermare che il “diritto libero” è la legge del più forte, del potere senza regole. Benissimo. Però, italianamente, “senza esagerare”. E cioè? Beh, senza abusare dei diritti. Così siamo al riparo da questa falsa “libertà” che è negazione del principio di legalità, così come si predica in Italia. Diritto, dunque e certezza di esso. Che peraltro, sembra lo dica ora anche la Cassazione, non esclude però che del diritto prestabilito, certo, finemente interpretato, si possa abusare… Che significa? Significa che respinto come barbaro e nazista il “diritto libero”, si afferma, oltre al “libero convincimento” dei giudici nell’accertamento dei fatti e, magari, nell’interpretazione delle norme esistenti (fino a crearne qualcuna alquanto inesistente) “correggendo”, però il sistema con la “libera individuazione dell’abuso”. L’abuso, infatti, una volta che se ne ammetta l’esistenza e la rilevanza, non può essere classificato e regolato, neppure per reprimerlo. Libertà dunque (per i magistrati) di stabilire l’abuso, ferma restando la fede inconcussa nella certezza del diritto. Che a questa conclusione dovesse pervenire la magistratura italiana era prevedibile si dovesse arrivare. Ma, come al solito, il peggio di ogni abuso (anche, dunque, di quello di liberamente di richiederne e rilevarne l’esistenza!) è rappresentato dalla corrività con la quale, poi, tutti cercano di trarne profitto. Apprendo che il Consiglio Nazionale Forense, impegnato contro le iscrizioni “spagnole” ed, ora, anche “rumene” negli albi degli avvocati, con successivo trasferimento in Italia (un sistema consentito, sembra, delle norme comunitarie, e dal fatto che in Spagna ed in Romania i laureati in giurisprudenza si iscrivono all’albo degli avvocati senza apposti esami) pare abbia impugnato avanti alla Corte Suprema qualcosa come quattrocento iscrizioni di avvocati “made in Spagna” o in Romania. Per risolvere una questione particolare (forse risolvibile assai meglio altrimenti) proprio gli Avvocati, che del principio di legalità dovrebbero essere gli interessati custodi, fanno ricorso a questa teoria nazista all’italiana del ”libero abuso del diritto certo”. E’ cosa su cui riflettere. Amaramente.”
Parliamo in questa sede degli elaborati.
Quanto succede prima sono i trucchi che i candidati possono vedere ed eventualmente denunciare. Quanto avviene in sede di correzione è lì la madre di tutte le manomissioni. Proprio perchè nessuno vede. La norma prevede che la commissione d’esame (tutti i componenti) partecipi alle fasi di:
• apertura della busta grande contenente gli elaborati;
• lettura del tema da parte del relatore ed audizione degli altri membri;
• correzione degli errori di ortografia, sintassi e grammatica;
• richiesta di chiarimenti, valutazione dell’elaborato affinchè le prove d’esame del ricorrente evidenzino un contesto caratterizzato dalla correttezza formale della forma espressiva e dalla sicura padronanza del lessico giuridico, anche sotto il profilo più strettamente tecnico-giuridico, e che anche la soluzione delle problematiche giuridiche poste a base delle prove d’esame evidenzino un corretto approccio a problematiche complesse;
• consultazione collettiva, interpello e giudizio dei singoli commissari, giudizio numerico complessivo, motivazione, sottoscrizione;
• apertura della busta piccola contenete il nome del candidato da abbinare agli elaborati corretti;
• redazione del verbale.
Queste sono solo fandonie normative. Di fatto si apre prima la busta piccola, si legge il nome, se è un prescelto si dà agli elaborati un giudizio positivo, senza nemmeno leggerli. Quando i prescelti sono pochi rispetto al numero limite di idonei stabilito illegalmente, nonostante il numero aperto, si aggiungono altri idonei diventati tali “a fortuna”.
La riforma forense del 2003 ha cacciato gli avvocati e sbugiardato i magistrati e professori universitari (in qualità anch’essi di commissari d’esame) perché i compiti vengono letti presso altre sedi: tutto questo perché prima tutti hanno raccomandato a iosa ed abusato del proprio potere dichiarando altresì il falso nei loro giudizi abilitativi od osteggiativi. Spesso le commissioni d’esame sono mancanti delle componenti necessarie per la valutazione tecnica della materia d’esame. Le Commissioni d’esame hanno sempre e comunque interessi amicali, familistiche e clientelari. Seguendo una crescente letteratura negli ultimi anni abbiamo messo in relazione l’età di iscrizione all’albo degli avvocati con un indice di frequenza del cognome nello stesso albo. In particolare, per ogni avvocato abbiamo calcolato la frequenza del cognome nell’albo, ovvero il rapporto tra quante volte quel cognome vi appare sul totale degli iscritti, in relazione alla frequenza dello stesso cognome nella popolazione. In media, il cognome di un avvocato appare nell’albo 50 volte di più che nella popolazione. Chi ha un cognome sovra-rappresentato nell’albo della sua provincia diventa avvocato prima. Infine vi sono commissioni che, quando il concorso è a numero aperto, hanno tutto l’interesse a limitare il numero di idonei per limitare la concorrenza: a detta dell’economista Tito Boeri: «Nelle commissioni ci sono persone che hanno tutto da perderci dall’entrata di professionisti più bravi e più competenti».
Nella sessione 2012 a Lecce sono in tutto 102 gli aspiranti «avvocati copioni». I loro nomi sono contenuti nell’avviso di proroga delle indagini preliminari emesso dal gip Simona Panzera, notificato agli indagati nei giorni di febbraio 2014. La richiesta di proroga, che comporterà altri sei mesi di verifiche e accertamenti, è stata formulata dal procuratore capo Cataldo Motta, che ha tenuto per sè il fascicolo. Il reato contestato è la violazione dell’articolo 1 del regio decreto numero 7 del 1925, che regola la disciplina dei diritti d’autore. L’inchiesta riguarda coloro che hanno sostenuto la prova scritta dell’esame di Stato nel dicembre 2012. Gli elaborati sono stati poi corretti dalla Corte d’Appello di Catania, dove però gli esaminatori non hanno potuto fare a meno di notare alcune «anomalie».
Di scandali per i compiti non corretti, ma ritenuti idonei, se ne è parlato. Nel 2008 un consigliere del Tar trombato al concorso per entrare nel Consiglio di Stato, si è preso la briga di controllare gli atti del giorno in cui sono state corrette le sue prove, scoprendo che i cinque commissari avevano analizzato la bellezza di 690 pagine. “Senza considerare la pausa pranzo e quella della toilette, significa che hanno letto in media tre pagine e mezzo in 60 secondi. Un record da guinness, visto che la materia è complessa”, ironizza Alessio Liberati. Che ha impugnato anche i concorsi del 2006 e del 2007: a suo parere i vincitori hanno proposto stranamente soluzioni completamente diverse per la stessa identica sentenza. Il magistrato, inoltre, ha sostenuto che uno dei vincitori, Roberto Giovagnoli, non aveva nemmeno i titoli per partecipare al concorso. L’esposto viene palleggiato da mesi tra lo stesso Consiglio di Stato e la presidenza del Consiglio dei ministri, ma i dubbi e “qualche perplessità” serpeggiano anche tra alcuni consiglieri. “Il bando sembra introdurre l’ulteriore requisito dell’anzianità quinquennale” ha messo a verbale uno di loro durante una sessione dell’organo di presidenza: “Giovagnoli era stato dirigente presso la Corte dei conti per circa 6 mesi (…) Il bando non sembra rispettato su questo punto”. Per legge, a decidere se i concorsi siano stati o meno taroccati, saranno gli stessi membri del Consiglio. Vedremo.
In effetti, con migliaia di ricorsi al TAR si è dimostrato che i giudizi resi sono inaffidabili. La carenza, ovvero la contraddittorietà e la illogicità del giudizio negativo reso in contrapposizione ad una evidente assenza o rilevanza di segni grafici sugli elaborati, quali glosse, correzioni, note, commenti, ecc., o comunque la infondatezza dei giudizi assunti, tale da suffragare e giustificare la corrispondente motivazione indotta al voto numerico. Tutto ciò denota l’assoluta discrasia tra giudizio e contenuto degli elaborati, specie se la correzione degli elaborati è avvenuta in tempi insufficienti, tali da rendere un giudizio composito. Tempi risibili, tanto da offendere l’umana intelligenza. Dai Verbali si contano 1 o 2 minuti per effettuare tutte le fasi di correzione, quando il Tar di Milano ha dichiarato che ci vogliono almeno 6 minuti solo per leggere l’elaborato. La mancanza di correzione degli elaborati ha reso invalido il concorso in magistratura. Per altri concorsi, anche nella stessa magistratura, il ministero della Giustizia ha fatto lo gnorri e si è sanato tutto, alla faccia degli esclusi. Già nel 2005 candidati notai ammessi agli orali nonostante errori da somari, atti nulli che vengono premiati con buoni voti, mancata verbalizzazione delle domande, elaborati di figli di professionisti ed europarlamentari prima considerati “non idonei” e poi promossi agli orali. Al Tg1 Rai delle 20.00 del 1 agosto 2010 il conduttore apre un servizio: esame di accesso in Magistratura, dichiarati idonei temi pieni zeppi di errori di ortografia. La denuncia è stata fatta da 60 candidati bocciati al concorso 2008, che hanno spulciato i compiti degli idonei e hanno presentato ricorso al TAR per manifesta parzialità dei commissari con abuso del pubblico ufficio.
E poi. Scuola, concorso per dirigente truccato: 25 avvisi di garanzia a Napoli, scrive Leandro Del Gaudio “Il Mattino”. Concorso per presidi: blitz nell’ufficio regionale scolastico. La procura di Napoli indaga sull’ultimo concorso per preside in Campania. Associazione per delinquere, abuso d’ufficio e falso, la Procura punta a fare chiarezza sulla gestione del concorso per dirigenti scolastici, notificando in queste ore decreti di perquisizione, ordini di esibizione e alcuni avvisi di garanzia. Indagine delegata alla Guardia di finanza di Torre Annunziata, sono in corso accertamenti e acquisizioni di documenti, sotto i riflettori l’ufficio regionale scolastico. Sono venticinque gli indagati, otto dei quali sono docenti vincitori di concorso dopo l’ultima prova scritta (all’inizio di febbraio) per l’accesso a un posto di dirigente scolastico. Gli altri indagati sono commissari di esame, un ex dirigente dell’ufficio regionale scolastico e sindacalisti. La guardia di finanza di torre annunziata ha anche trovato compiti scritto già fatti in una sede del sindacato. Dalle indagini, coordinate dal procuratore aggiunto Alfonso D’Avino e dal sostituto Ida Frongillo, è emerso che gli indagati avevano creato un meccanismo per favorire alcuni candidati al concorso. In particolare, sarebbe stata pilotata la nomina di alcuni membri della commissione esaminatrice, grazie ai quali i candidati erano riusciti a conoscere con largo anticipo i quesiti della prova preselettiva. Inoltre – secondo l’accusa – si era riusciti a eludere l’anonimato delle prove scritte facendo pervenire ai componenti collusi della commissione giudicatrice gli incipit e le frasi finali dei candidati da favorire. Il materiale concorsuale di sei candidati è stato sequestrato.
Concorso per preside tra accuse e sospetti. Un bel giallo tra i presunti brogli coinvolto un foggiano. Secondo la legge doveva essere fuori dal concorso, invece non solo l’ha superato ma si ritrova a un passo dalla nomina. Denunce, dimissioni e sospetti di brogli: c’è un piccolo giallo nella procedura per il concorso da presidi (236 posti in Puglia) sulla quale da qualche indaga la procura della Repubblica. Uno degli 867 candidati ammessi alla prova scritta del maxi concorso per dirigenti scolastici, un professore «comandato» presso gli uffici della direzione regionale di Foggia, sarebbe stato pizzicato durante il primo giorno di prova con alcuni foglietti in un vocabolario. Tale episodio sarebbe avvenuto nella scuola «Elena di Savoia» in via Caldarola, al rione Japigia, uno degli istituti di Bari in cui si sono tenute le prove scritte, il 14 e 15 dicembre scorso. E a conferma che qualcosa non sia andato per il verso giusto, ci sono anche le dimissioni – avvenute pochi giorni fa – dei segretari delle due sottocommissioni, arrivate proprio adesso a concorso ormai ultimato (sono attese le prove orali). A denunciare tutto il docente Gerardo Troiano.
Una pioggia di ricorsi amministrativi s’è abbattuta sull’ultimo concorso per l’Abilitazione scientifica nazionale 2012-2013 per professori ordinari e associati che prelude poi a quella didattica con la chiamata e l’assunzione in ruolo, scrive Giovanni Valentini su “La Republica”. È una montagna di carta bollata che minaccia ora di provocare una valanga di annullamenti o di revisioni, sconvolgendo la vita già travagliata dei nostri atenei. Nell’ambito della controversa riforma Gelmini, il ministero della Pubblica istruzione aveva disposto una nuova procedura di abilitazione, introducendo la meritocrazia come principale criterio di valutazione. Questa avrebbe dovuto fondarsi su elementi trasparenti e oggettivi, definiti “bibliometrici”, forniti dalla produzione scientifica di ciascun candidato nei rispettivi curricula: cioè monografie, articoli o citazioni pubblicati da riviste specializzate. Ma successivamente sono stati inseriti criteri aggiuntivi, del tutto discrezionali, in forza dei quali le commissioni di valutazione hanno ribaltato le graduatorie, suscitando anche alcune interrogazioni parlamentari.
Si tratta di un settore concorsuale “non bibliometrico”, perciò la commissione, come in tutti i settori non bibliometrici, si è proposta di valutare la «qualità della produzione scientifica (…) sulla base dell’originalità, del rigore metodologico e del carattere innovativo della stessa» e ha ritenuto di poter «prendere in considerazione, sulla base di un motivato giudizio di eccellenza della produzione scientifica, anche candidati che non posseggano tutti i requisiti (bibliometrici)». Questo comporta la necessità di leggere le pubblicazioni scientifiche dei candidati (di rileggerle, o almeno riconsiderarle, se già conosciute). I concorrenti per la seconda fascia erano 425 e quelli per la prima 115 e, poiché alcuni sostenevano ambedue le abilitazioni, il totale effettivo era pari a 490, per un totale di circa 6.600 (seimilaseicento) pubblicazioni: monografie, articoli, saggi, tutti da valutare analiticamente a norma di regolamento.
Seguiamo l’iter di questa commissione scrive G. Avezzu. Nominata a fine dicembre 2012, la commissione si riunisce una prima volta a fine gennaio 2013, per fissare i criteri. Poniamo che i commissari comincino a leggere le pubblicazioni e a valutarle quello stesso giorno. Consegneranno i loro verbali al MIUR a fine novembre, esattamente dieci mesi dopo: in tutto 303 giorni, 233 se togliamo 48 fra domeniche e altre festività nazionali e 44 mezze giornate del sabato. In 233 giorni significa leggere 28 pubblicazioni (anche monografie) al giorno. E comunque in 303 giorni significherebbe leggerne 21 al giorno. Questo dal primo all’ultimo giorno, e nel contempo: fare lezione, ricevere gli studenti, tenere gli appelli d’esame e di laurea, fare ricerca – living and partly living. In realtà, se scorriamo i verbali vediamo che già ai primi di aprile la commissione è in grado di «(discutere) ampiamente dei curricula, dei profili e della produzione scientifica dei candidati all’abilitazione nazionale (di) II fascia» in due riunioni consecutive per complessive 15 ore, e che a metà maggio passerà a discutere i candidati alla I fascia. Dobbiamo dedurre che nei mesi di febbraio e di marzo, più qualche giorno di gennaio e di aprile, la commissione abbia letto i 5.100 (cinquemilacento) lavori dei candidati alla II fascia – anche per riscontrare l’eccellenza, ove presente, pur in assenza dei requisiti cosiddetti bibliometrici (vedi sopra). E questo è un tour de force eccezionale anche per un accademico italiano: 85 (ottantacinque) pubblicazioni il giorno, comprese le domeniche, Pasqua, Pasquetta e Festa del Papà. Ammettiamo pure che un “eccellente” accademico conosca i quattro quinti della produzione del suo settore: restano 17 (diciassette) pubblicazioni il giorno, da leggere e valutare nel rispetto dei valori in campo e con la presunzione di fare un buon servizio all’Università italiana.
E pure scatta il paradosso. Bocciati, ma costretti a rimanere in cattedra ad insegnare, scrive Silvano Introvaia su “La Repubblica”. Ecco il singolare destino di migliaia di ricercatori universitari italiani alle prese con l’Abilitazione scientifica nazionale: la patente introdotta dalla riforma Gelmini, necessaria, in futuro, per partecipare ai concorsi per docente di prima – l’ex professore ordinario – e seconda – il professore associato – fascia. Ricercatori italiani, sfruttati e maltrattati? Stando ai loro racconti, sembra proprio di sì. Ma il tutto si svolge nel più assoluto riserbo, visto che nessuno se la sente di denunciare apertamente, se vuole continuare ad avere qualche chance all’interno del proprio ateneo. Noi siamo riusciti a raccogliere qualche testimonianza, ovviamente anonima.
«Dopo tanti anni, come volevasi dimostrare, in Italia, pur con la ragione, non si riesce a cavare un ragno dal buco, anzi sì è cornuti e mazziati e ti dicono, in aggiunta, subisci e taci», chiosa in chiusura Antonio Giangrande.
Dr Antonio Giangrande
Presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie e di Tele Web Italia
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