IL CALCIO: LA REPUBBLICA DELLE BANANE E LA TESSERA DEL TIFOSO.

IL CALCIO: LA REPUBBLICA DELLE BANANE E LA TESSERA DEL TIFOSO.

Nel libro scritto da Antonio Giangrande “SPORTOPOLI”, un capitolo è dedicato alla vicenda Tavecchio ed alla tessera del tifoso.

Su questo Antonio Giangrande, il noto saggista e sociologo storico che ha pubblicato la collana editoriale “L’Italia del Trucco, l’Italia che siamo” ha svolto una sua inchiesta indipendente. Giangrande sui vari aspetti dello sport in Italia ha pubblicato un volume “Sportopoli. L’Italia delle frodi sportive”.

IL CALCIO: LA REPUBBLICA DELLE BANANE E LA TESSERA DEL TIFOSO.

L’unico frutto del rancor è la banana… Tavecchio è il Mostro di Mezz’Estate per una frase scema su calcio & banane, scrive Marcello Veneziani su “Il Giornale”. Non so chi sia questo Tavecchio, cos’abbia fatto nella vita e se meriti di guidare la federazione calcio oppure no. Per ragioni onomastiche e anagrafiche è forse incompatibile con l’era puerile di Renzi, ma non è di vecchiaia che si parla. Lui è il Mostro di Mezz’Estate per una frase scema su calcio & banane. Neanche una frase razzista, perché non era quello lo spirito, solo cretina. Che in un paese maturo dovrebbe concludersi con un giudizio: hai detto una scemenza, punto. Nossignore. Per una specie demente o infantile di gioco dell’oca, appena uno pronuncia la parola scorretta, anche a mezza bocca, salta su il circo dell’inquisizione, una versione buffonesca del Sant’Uffizio, lo porta alla gogna, lo massacra e lo caccia. È un sistema che si ripete come un rito antropofago; se uno, per dire, ha vissuto una vita degna e incensurata, ha fatto tante cose buone, ma una volta allo stadio ha fatto buu, diventa per sempre, lapidato o sulla lapide, «quello che ha fatto buu» e additato al pubblico disprezzo eterno. Ci sono sui giornali dei serial killer che si occupano di far fuori chi dice la parolina scorretta. «Hai toppato,sei entrato nella casella sbagliata, e ci vai ind a’morte, ’a furtuna ’nzerra ’a porte». Non si valutano mai meriti e demeriti, si sorvola su curriculum disastrosi, danni ed errori, si può avere alle spalle una vita fallimentare, da porco o da terrorista, ma la banana, ma la banana…No, quella è peccato mortale, ti giochi tutto. Bestemmia Dio e la Madonna, ma non nominare la Banana invano.

Carlo Tavecchio e la Repubblica delle Banane, scrive Mariateresa Nuzzi. Carlo Tavecchio, già Vicepresidente e ora candidato alla Presidenza della FIGC viene criticato per aver rilasciato la seguente dichiarazione razzista: «L’Inghilterra individua dei soggetti che entrano, se hanno professionalità per farli giocare, noi invece diciamo che Opti Pobà è venuto qua, che prima mangiava le banane, adesso gioca titolare nella Lazio e va bene così. In Inghilterra deve dimostrare il suo curriculum e il suo pedigree… ». A questo proposito SKY TG24 lancia un sondaggio in cui chiede ai telespettatori di pronunciarsi e di dire come la pensano sulla candidatura di Tavecchio alla Presidenza: è giusto dopo questa affermazione, che Tavecchio diventi Presidente? Tavecchio è adeguato? Facciamo una piccola incursione nella vita e nella carriera di Carlo Tavecchio e cerchiamo di capire chi è l’uomo che definisce i giocatori africani, dei mangia-banane. Ci aiuta in questa operazione la sempre utile enciclopedia on-line Wikipedia, dalla quale riporto questi estratti: “Esponente della Democrazia Cristiana, diplomato in Ragioneria ed ex dirigente bancario presso la Banca di Credito Cooperativo dell’Alta Brianza, all’età di 33 anni diventa sindaco di Ponte Lambro (suo comune di nascita, in provincia di Como) conservando la carica per quattro mandati consecutivi, dal 1976 al 1995. Nel 1974 è tra i fondatori della Polisportiva di Ponte Lambro e, in ambito calcistico, per sedici anni diventa presidente dell’ASD Pontelambrese, società dilettantistica che durante la sua gestione arriva a disputare anche il campionato di Prima Categoria. La sua carriera dirigenziale all’interno di Federcalcio inizia con l’incarico di consigliere del Comitato Regionale Lombardia della Lega Nazionale Dilettanti (LND) mantenuto dal 1987 al 1992, diventando poi nei successivi quattro anni vice presidente della LND e venendo eletto nel 1996 al vertice del medesimo Comitato Regionale Lombardia.Il 29 maggio 1999, a seguito delle dimissioni del suo predecessore Elio Giulivi a causa dell’affaire Rieti – Pomezia, è votato presidente della Lega Nazionale Dilettanti. Dal maggio 2007 diventa vice presidente della Federazione Italiana Giuoco Calcio assumendone la funzione di vice presidente vicario nel 2009. Durante la sua pluridecennale carriera, Tavecchio è stato anche consulente del Ministero dell’Economia per le problematiche di natura fiscale e tributaria riguardo alla sfera dell’attività sportiva dilettantistica e componente della Commissione Ministeriale, presso il Ministero della Salute, per le problematiche dell’impiantistica nazionale. Inoltre nel biennio 2002/2004 riceve la nomina di esperto in materia di problematiche riferite al calcio dilettantistico e giovanile e ai campi in erba artificiale e, dal 2007, viene designato dall’Uefa membro effettivo della Commissione per il calcio dilettantistico e giovanile. Scrive anche un libro per spiegare il calcio ai più piccoli, dedicandolo alla nipote Giorgia, dal titolo «Ti racconto… Il Calcio». È tifoso dell’Inter, squadra di cui è stato anche membro del consiglio di amministrazione sotto la gestione di Massimo Moratti. Carlo Tavecchio è stato processato e condannato cinque volte. È stato condannato a 4 mesi di reclusione nel 1970 per falsità in titolo di credito continuato in concorso, a 2 mesi e 28 giorni di reclusione nel 1994 per evasione fiscale e dell’Iva, a 3 mesi di reclusione nel 1996 per omissione di versamento di ritenute previdenziali e assicurative, a 3 mesi di reclusione nel 1998 per omissione o falsità in denunce obbligatorie, a 3 mesi di reclusione nel 1998 per abuso d’ufficio per violazione delle norme anti-inquinamento, più multe complessive per oltre 7.000 euro.” Ora, anche tralasciando le condanne, che a me qualche dubbio sulla sua adeguatezza me lo farebbero venire, non posso fare a meno di chiedermi come si possa ricoprire una carica così alta, una posizione che dovrebbe essere super partes per eccellenza, che dovrebbe dare continuo esempio in senso antirazzista, di fairplay, di onestà e di trasparenza, quando poi si decide di esporsi pubblicamente con una frase dai potenti connotati razzisti. Significa forse che quest’uomo non ha la minima idea del ruolo che vorrebbe ricoprire? Oppure vuol dire che non si rende conto della gravità delle sue parole? O forse crede che chi lo ascolta non faccia caso a quello che dice? Quando si è accorto che invece lo si ascoltava eccome, tanto che anche la stampa estera gli ha dedicato qualche riga, allora è corso a scusarsi agli stessi microfoni della sopracitata dichiarazione. Sostiene che non abbiamo colto il succo del suo discorso, quello dei mangiabanane non è il punto, lui si riferiva alla professionalità, che c’entrano ora queste banane? «Le banane? Non mi ricordo neppure se ho usato quel termine, e comunque mi riferivo al curriculum e alla professionalità richiesti dal calcio inglese per i giocatori che vengono dall’Africa o da altri paesi». Problemi di memoria? Sarà perché sei Ta-vecchio? Io vorrei tanto fargli questa domanda: che tipo dovrebbe essere il Presidente della FIGC secondo lei? In attesa di una sua risposta voglio provare ad immaginare un Presidente che parla ai microfoni assolutamente senza filtro. Uno che da tifoso, il giorno della sconfitta dell’Inter contro la Roma – faccio un esempio – dichiari robe del tipo: “Questi romani coatti e mangia trippa hanno avuto solo fortuna!”. Ma poi non riesco a smettere di domandarmi: come può un uomo con il suo curriculum vitae pronunciare una frase del genere? Forse basterebbe solo rivoltare la domanda: come può uno che pronuncia una frase simile, aver fatto tanta strada? Insomma, siamo sempre più la Repubblica delle Banane e la nostra classe dirigente vanta persone come Carlo Tavecchio.

Tavecchio è il degno numero uno del calcio italiano, scrive Massimiliano Gallo su Il Rottamatore. C’è una premessa fondamentale da fare: la politica è sangue e merda. E su questo assunto, siamo tutti più o meno d’accordo. E il calcio, lo sport, la gestione dello sport è politica. Non altro. Non averlo compreso, continuare a recitare il ruolo della bella addormentata del bosco non fa onore alla nostra intelligenza. Lo sport è business. Punto. Non c’è nemmeno più bisogno di specificarlo. Sì, ogni tanto, ogni quattro anni a voler essere precisi, il mondo finge di commuoversi per storie ai confini delle realtà, come quelle dei tiratori al piattello, dei lottatori che conquistano medaglie d’oro alle Olimpiadi e si guadagnano il loro meritatissimo quarto d’ora di celebrità. Ma sono fette sempre più marginali di una torta che è giustamente farcita di denaro. De-na-ro. Il resto è menzogna decoubertiniana che qualcuno di buona volontà ancora prova, in maniera encomiabile, a insegnare ai bambini. Fatta questa doverosa premessa, e aggiunto che il nostro business calcistico è ormai un business di serie B (nemmeno da alta classifica in serie B), possiamo dire che la cagnara sollevata per l’inqualificabile uscita di Carlo Tavecchio è la solita chiassosa sceneggiata ipocrita all’italiana. Di che cosa ci stupiamo? Che uno dei più longevi dirigenti del nostro calcio definisca mangiabanane extracomunitari sconosciuti che vengono a giocare da noi? Davvero? E dove eravamo quando uno dei più autorevoli signori del calcio italiano, un certo Adriano Galliani, signorilmente invitò Boateng a non uscire più dal campo per protesta contro i buu razzisti del pubblico avversario? Nessuno disse nulla, allora. Si infiocchettò la pillola. Galliani aveva parlato col solo scopo di non dare ulteriore risonanza a quattro razzistelli. Finì che al termine della stagione, Boateng ha lasciato il Milan ed è andato a giocare in Germania. In Spagna, invece, quelli del Villarreal hanno impiegato non più di due giorni per individuare il lanciatore di banane a Dani Alves e bandirlo per sempre dallo stadio. È una questione di senso civico. È il termometro della civiltà di un Paese e dei suoi abitanti. Per carità, le malattie possono essere curate, anche con terapie shock. Ma allora vanno intraprese. Subito. Il calcio italiano o la nostra politica si è fermato un attimo a ragionare dopo che i calciatori della Nocerina si accasciarono in campo fingendo malori perché i lori tifosi li avevano minacciati di non giocare? Non ricordiamo. Così come non ricordiamo un dibattito, un convegno, una presa di posizione del governo per i cori razzisti che da anni infestano i nostri stadi. E sorvoliamo sul nulla che il governo Renzi ha prodotto dopo gli incidenti di Roma e la morte di Ciro Esposito. Ci limitiamo a tre esempi, ma potremmo proseguire per pagine e pagine. Il calcio è business. Di serie B. L’elezione del presidente della Federcalcio – così come di tutte le poltrone sportive – è una battaglia politica. Ci sono in gioco quei quattro spiccioli che ancora versano le tv. E quegli incarichi di sottogoverno, quelle piccole “amicizie” che un presidente amico può garantire. Parliamo di poca roba, eh. Nulla che cambi il mondo. Ma il calcio italiano non ha la pretesa di farlo. Abbiamo perso dal Costa Rica ai Mondiali e ancora pensiamo di essere il centro del mondo. Non ci calcola più nessuno. Il giocatore più forte della serie A è un signore che in Inghilterra manco giocava più: Carlos Tevez. Qui vengono professionisti a fine carriera oppure in cerca di un improbabile rilancio. Allo stadio non ci va quasi più nessuno perché gli impianti fanno schifo ed è anche pericoloso. Sia chiaro, sarebbe così anche con Demetrio Albertini presidente. Pensate davvero che con lui possa cambiare qualcosa? Ovviamente è più presentabile, per carità. Non ha mai definito mangiabanane nessuno. Ma nemmeno con lui il nostro calcio diventerà uno sport come lo è in Inghilterra o in Germania. È solo una guerra di potere che Roma e Juventus (sostenitori di Albertini, cui ora si è aggiunta la Fiorentina) hanno perduto. Magari alla fine i sostenitori di Tavecchio si arrenderanno alle pressioni esterne – il mondo è tornano a indignarsi, come ai tempi di Berlusconi. Ma non avverrà prima di trovare nuovi equilibri. Perché tra qualche giorno il mondo dello sport penserà ad altro, e vuoi che un Lotito, un Galliani o un De Laurentiis rinuncino a piccole prebende in cambio di una posa nello spot “Respect” contro il razzismo? Suvvia, sembriamo tanti Pancho Pardi. La purezza ora la vogliamo dal calcio. Meglio Tavecchio, la sua faccia ci ricorderà chi siamo. Senza illusioni destinate a rimanere tali.

Banane & pallone. Un boiardo immortale alla Figc. Potere e amicizie, know-how e grane giudiziarie. Ecco il regno del supermanager Carlo Tavecchio, scrive Marco Fattorini su “L’Inkiesta”. «È vero, ho 71 anni. Che cosa devo fare? Devo ammazzarmi?». Quella che fino a pochi giorni fa rappresentava la critica principale rivolta al futuro presidente della Federcalcio Carlo Tavecchio è stata rispedita al mittente dal diretto interessato. Eloquio informale e piglio decisionista. «Questo è un Paese addormentato, io ho voglia di fare e di tenere sveglia la gente, il calcio è da salvare». Poi però la bufera si è spostata dalla questione anagrafica a quella razziale, dopo che all’assemblea della Lega Dilettanti Tavecchio ha dichiarato: «L’Inghilterra individua dei soggetti che entrano se hanno professionalità per farli giocare, noi invece diciamo che “Opti Pobà” è venuto che prima mangiava le banane e adesso gioca titolare nella Lazio e va bene così». A molti non è andato bene. Nel giro di qualche ora monta l’indignazione di tifosi, opinione pubblica e addetti ai lavori. Nasce un caso politico. Gaffe o razzismo? Un fronte trasversale chiede a Tavecchio di ritirarsi dalla corsa (già vinta) alla poltrona della Federcalcio. Se per i famigerati «cori territoriali» si chiudono le curve degli stadi, viene da domandarsi quale provvedimento ricorra per la frase pronunciata da un rappresentate istituzionale. Scendono in campo parlamentari e giornalisti, osservatori accorti e critici dell’ultim’ora. Gli attacchi del Pd e la difesa di Forza Italia. Dalla «forte irritazione» del sottosegretario allo Sport Graziano Delrio alla chiosa del premier Matteo Renzi: «Espressione inqualificabile, un clamoroso autogol». Mentre il vicepresidente della Camera Roberto Giachetti auspica che «se Tavecchio non rinuncia spero non sia eletto», il grande accusato rilancia: «Accetto tutte le critiche, ma non l’accusa di razzista perchè la mia vita testimonia l’esatto contrario. Se sarò eletto presidente, la federazione condurrà una politica fattiva contro ogni discriminazione». La tempesta lo piega ma non lo spezza. E i suoi grandi elettori del mondo pallonaro, con poche eccezioni, lo seguono in un silenzio assordante. Ma l’esternazione sulle banane, pur traballante in un contesto falcidiato da ordine pubblico e cultura sportiva, non può essere la sola causa dell’«inadeguatezza» che più di qualcuno addebita a Tavecchio. Non bastano nemmeno le dichiarazioni “genuine” sulla rosa dei papabili ct azzurri: «Conte? Mai visto. Quello delle Marche, come si chiama? Ah, Mancini. Non conosco nemmeno lui. Quell’altro del Friuli? Sì, Guidolin. Non ho ancora deciso, comunque mi occuperò di questo bordello». Fuori dal palazzo c’è chi non gli perdona il fattore anagrafico e la lunga esperienza prodiga di conoscenze in Figc. «L’uomo sbagliato al posto sbagliato». Agli occhi dei detrattori Tavecchio diventa emblema della continuità e del potere costituito. Per dirla con Aldo Grasso «è il trionfo dello status quo e il candidato ideale per non cambiare nulla». E l’uscita infelice sul misterioso Opti Pobà viene digerita come una sorta di dichiarazione programmatica. Classe 1943, «educazione brianzola» e cultura del lavoro sin dal primo impiego all’età di 19 anni. Ex dirigente bancario con in tasca un diploma di ragioneria, Tavecchio nasce a Ponte Lambro, comune di cui è stato sindaco in quota Democrazia Cristiana dal 1976 al 1995. Scuola diccì come quella del predecessore Giancarlo Abete, deputato forlaniano per tre legislature. Ma la scalata sportiva del manager brianzolo comincia con la presidenza della Pontelambrese e nel 1987 prosegue con l’ingresso al consiglio regionale lombardo della Lega Nazionale Dilettanti. Nel 1996 approda a capo del comitato regionale, mentre la poltrona di presidente nazionale gli arriverà nel 1999, inizio di un regno longevo. Dal 2007 Tavecchio è pure vicepresidente della Figc e due anni dopo diventa il vicario di Abete. Nel curriculum si notano una consulenza per il Tesoro e altri incarichi in commissioni ministeriali. Ultimo, non per importanza, un libro dedicato alla nipotina Giorgia: “Ti racconto…Il Calcio”. Solidi contatti, amicizie importanti e grinta da vendere in un Palazzo dalle mille correnti. Gli endorsement del «poltronissimo» Franco Carraro e di Antonio Matarrese. La stima dell’ex Coni e oggi uomo Cio Mario Pescante. Le sponde del vicepresidente Figc Mario Macalli e del kingmaker della Lega Calcio Claudio Lotito. In via Allegri Tavecchio è considerato «uomo dell’apparato» nonché profondo conoscitore del mondo del pallone. Il know-how che gli riconoscono deriva dai quindici anni al comando della Lega Nazionale Dilettanti, con lui realtà consolidata e cassaforte strategica di consenso. «Il cuore del calcio», si legge sul sito ufficiale Lnd e non è un modo di dire. La Lega Dilettanti è il Paese reale del pallone italico: ha in pancia 1,3 milioni di calciatori dall’attività ufficiale a quella amatoriale e ricreativa, 15mila società e 70mila squadre impegnate in 700mila partite stagionali per un giro d’affari di 1,5 miliardi di euro tra tesseramenti e iscrizioni ai campionati. Bastano questi numeri per capire che la Lnd rappresenta «la quasi totalità del calcio italiano». Nel percorso coi dilettanti emerge la questione dei campi sintetici delle società, che devono essere omologati. Nella Lnd c’è un unico laboratorio autorizzato a testarli, pratica richiesta periodicamente. L’azienda “fortunata” è la Labosport di Roberto Armeni, figlio del capo della Commissione impianti in erba sintetica della Lega Dilettanti. Conflitto d’interessi? Interpellato da Report, Tavecchio rispondeva: «Non voglio che mi venga in mente di andare alla Rai e vedere quanti amici, conoscenti, parenti e amanti ci sono. Poi andare in Federazione, scendere le scale e arrivare fino al Coni e vedere quanti ce ne sono. Io ce n’ho uno, dicasi uno». Ma i critici puntano la lente d’ingradimento anche su un altro aspetto. A margine della sua candidatura alla Figc è tornata a circolare un’interrogazione parlamentare dell’ex deputato Pdl Amedeo Laboccetta che, partendo dallo statuto della Figc secondo cui «sono ineleggibili coloro che hanno riportato condanne penali passate in giudicato per reati non colposi a pene detentive superiori a un anno», andava all’attacco del presidente della Lega Dilettanti. «Carlo Tavecchio – si legge nell’interrogazione – annovera condanne penali per anni uno, mesi tre e giorni ventotto di reclusione, oltre a multe e ammende per euro 7.000». I provvedimenti, spiegava Laboccetta, si riferiscono a «falsità in titolo di credito continuato in concorso», «violazione delle norme per la repressione dell’evasione in materia di imposte sui redditi e sul valore aggiunto», «omesso versamento delle ritenute previdenziali e assistenziali», «omissione o falsità in denunce obbligatorie», «abuso d’ufficio» e «violazione delle norme per la tutela delle acque dall’inquinamento». Il curriculum giudiziario ha fatto mormorare più di qualcuno prima che il diretto interessato, rispondendo agli articoli de La Repubblica e Il Fatto Quotidiano, chiarisse la questione. «Le condanne – spiega Tavecchio – si riferiscono a fatti accaduti dai 50 ai 25 anni fa, e si riferiscono a situazioni nelle quali sono stato coinvolto esclusivamente in funzione della posizione che ricoprivo, e non come autore delle omissioni contestate, compiute invece da terzi». Le condanne non sono menzionate nel casellario giudiziale, Tavecchio ha goduto della riabilitazione e il certificato penale «è immacolato». Fa sapere anche che prima di candidarsi alla Lnd chiese alla Corte Federale se fosse idoneo a ricoprire la carica in questione. Risposta affermativa e caso chiuso. Oggi la nuova avventura si chiama Federcalcio. Dopo il tracollo azzurro in Brasile e le pressioni dell’opinione pubblica per azzerare tutto, lui è già a bordo campo con l’esperienza di chi del pallone conosce il giorno e la notte. Con buona pace di rottamatori e quarantenni, la candidatura di Tavecchio procede rapida e ben oliata. Dall’inizio può contare sui voti della Lega Pro dell’amico Macalli, oltre che sul serbatoio della sua Lega Dilettanti. Solo con queste due componenti Tavecchio veleggia al 51% garantendosi l’elezione virtuale. La percentuale stana gli scettici e scoraggia chi tra i grandi elettori era rimasto alla finestra per esplorare candidature alternative. Albertini è minoritario in partenza, le componenti tecniche (Assoallenatori e sindacato dei calciatori) e gli ammiccamenti di un gruppetto di club di serie A non bastano. Volenti o nolenti, quasi tutti convergono su Tavecchio perchè è meglio l’accordo col futuro capo che lo scontro ideologico. Arriva l’ok della serie B di Abodi, mentre la A torna all’ovile grazie alla regia di Lotito. Diciotto squadre su venti (Juve e Roma) decidono di appoggiare il presidente Lnd e di queste almeno sei lo fanno dopo aver abbandonato Albertini. Che qualche giorno prima era stato filosoficamente accantonato da Lotito in un’intervista al Foglio. «Kant – spiegava il presidente della Lazio a Salvatore Merlo – dice che ce stanno il noumeno e il fenomeno. Il fenomeno è ciò che appare, il noumeno invece è la realtà. Ecco Albertini è kantianamente un fenomeno. Il calcio adesso ha bisogno di gente che sappia fare, che abbia esperienza manageriale». Dalle parole ai programmi. Quello di Tavecchio è ambizioso, conta undici punti sovrastati dallo slogan “Il gioco del calcio al centro dei nostri pensieri”. Dice che non scenderà a compromessi. Parla di revisione della governance federale, lotta contro la violenza, riqualificazione del prodotto calcio, rilancio del Settore Tecnico e sviluppo dei Centri di Formazione Federale, ripensamento del Settore Giovanile e Scolastico, miglioramento della comunicazione, maggiore interlocuzione con Governo e Coni, autoconsistenza finanziaria e riforma dei campionati. Tavecchio propone pure l’abolizione del diritto di veto portando dal 75% al 65% la soglia per cambiare lo statuto. Circostanza che trova lo sbarramento delle componenti tecniche (calciatori e allenatori) che non a caso tifano Albertini e vogliono continuare a pesare in consiglio federale. Pazienza, Tavecchio tira dritto. Liquida il quarantenne Albertini con un paio di battute in conferenza stampa, risponde per le rime a Barbara Berlusconi e Andrea Agnelli che tifavano rottamazione. Evita il politichese, ma non si lascia scalfire dal putiferio politico del post-banane. Boiardo di lotta e di governo, la corsa alla Federcalcio non è un pranzo di gala.

Il “caso Tavecchio”, ennesima riconferma della follia in cui siamo scivolati. In un Paese che va a rotoli e dove la moralità più elementare è stata uccisa e sepolta da tempo, si scatena l’indignazione conformista per una frase che, al più, può essere considerata come una battuta infelice. Siamo al di là dell’ipocrisia, siamo alla demenza. E poi, cerchiamo di capire chi sono i veri razzisti, scrive Paolo Deotto su “Riscossa Cristiana”. Premetto che non conosco il signor Carlo Tavecchio e che non seguo il gioco del calcio da decenni. Ma sento verso di lui un’istintiva solidarietà, perché lo vedo vittima di questa strana demenza che ha ormai investito come un uragano la nostra povera Italia. Ordunque, pare che il sig. Tavecchio, aspirante alla presidenza della Federcalcio, lamentandosi per la facilità con cui le nostre squadre assumono giocatori stranieri che alla prova dei fatti sono schiappe, abbia detto questa terribile frase: “Le questioni di accoglienza sono un conto, quelle del gioco un altro. L’Inghilterra individua dei soggetti che entrano, se hanno professionalità per farli giocare, noi invece diciamo che Opti Poba è venuto qua, che prima mangiava le banane, adesso gioca titolare nella Lazio e va bene così”. Lo dicevo prima, non seguo il calcio e quindi non so se questa valutazione di Tavecchio sia corretta. Ma non so neanche quale crimine abbia commesso, solo perché ha voluto “caricare” il suo discorso con l’esempio estremo di un selvaggio chiamato a giocare nella Serie A. Ha detto una battuta infelice? Può darsi, ma mi ricorda molto un “caso” di anni fa, di un generale che era stato oggetto di critiche feroci perché, per deprecare il comportamento di alcuni soldati che avevano danneggiato la loro caserma, aveva usato un linguaggio, appunto, “da caserma”, ossia un linguaggio non delicato e politicamente corretto, ma che andava subito, senza alcuna delicatezza, al nocciolo del problema. Il caso del generale è di alcuni anni fa; il tempo è passato e l’ipocrisia è aumentata, fino a divorare anche il cervello degli ipocriti, che hanno perso del tutto il senso della misura. Siamo alla demenza. Per una frase, ripeto, al più infelice, si è scatenato il coro perbenista, che comprende ovviamente ormai più o meno tutti. Ne parlano esponenti politici, giornalisti, addirittura ieri su Zenit, agenzia cattolica di informazione, leggo che una “Fondazione Giovanni Paolo II per lo sport” straparla di un dirigente calcistico “pronto a calpestare la dignità umana degli atleti”.  Un’angosciata Giovanna Melandri invoca: “Fermatelo!” (ma dove stava andando?); il PD trova compattezza nel chiedere che Tavecchio si ritiri dalla corsa alla presidenza della Federazione; Cecile Kyenge non perde l’occasione per far sapere che esiste ancora e dichiara che Tavecchio “ha il tipico atteggiamento paternalistico nei confronti di chi si pensa inferiore e da civilizzare”. Il meccanismo è sempre quello. Quando la Voce del Padrone indica la vittima contro cui accanirsi, inizia la gara a chi è più severo, implacabile. Nessuno vuole restare fuori dal coro che da la garanzia di essere politicamente corretti e di poter quindi in futuro partecipare, a seconda dei livelli ricoperti, al banchetto o almeno alla merendina di regime. Poi il colpevole, dopo un processo in cui giustamente gli sarà negato il diritto alla difesa, perché è uno sporco razzista, verrà portato al patibolo, appeso alla corda tra gli applausi democratici e poi si potrà iniziare anche a sputare sul suo cadavere. I giustizieri torneranno a casa appagati. Certo, quest’ultima descrizione è di fantasia, ma è la strada su cui ci si avvia se non si recupera un minimo di capacità di discernimento. In quest’orgia di moralismo, è impossibile non pensare che la cosiddetta “società civile” (per inciso, non ho mai ben capito cosa voglia dire, visto che di “civile” è rimasto ben poco) ogni giorno ammazza senza alcun turbamento circa 300 bambini (si chiama aborto, anzi IVG, che sta per interruzione volontaria di gravidanza. Così è più delicato); progetta allegramente le fecondazioni in provetta, riducendo l’uomo a un animale e preventivando senza alcun scrupolo la distruzione di altre vite umane (la fecondazione extra corporea nasce per la selezione delle razze negli animali da allevamento); tiene in gran conto, e tra poco legittimerà, l’eutanasia, ottimo sistema per liberarsi dal peso di vecchi e malati; promuove le perversioni sessuali, insegnandole fin dalla scuola materna, mentre non fa nulla per aiutare la famiglia, l’unica famiglia esistente; lascia nella miseria e nella disperazione tante famiglie in cui non si riesce più a tirare la metà del mese, perché c’è chi ha perso il lavoro, c’è chi non lo trova, c’è chi, disperato, si toglie la vita. E così via. Una società allo sbando morale completo, fiera e tronfia del suo relativismo, si rotola nella disperazione e nel disastro, e poi si crea le nicchie di moralità contro uno dei nuovi mostri: il razzismo! Insieme all’evasione fiscale e ovviamente alla cosiddetta omofobia, il razzismo è uno dei mostri da combattere. Scusate, dimenticavo la mafia, lì c’è addirittura la scomunica. Gli altri? Beh, vedremo; per ora occupiamoci di questi, siamo sicuri che avremo il consenso dei salotti buoni. È razzista un uomo perché pronuncia una frase come quella detta da Tavecchio? Ma per favore, cerchiamo di essere, se non seri (non pretendiamo troppo), almeno non ridicoli. E se proprio vogliamo parlare di razzismo, sentimento quanto mai deprecabile, allora facciamo il punto. Anzitutto vorrei togliermi una curiosità personale: per quanto sforzi abbia fatto e faccia tuttora non sono mai riuscito a capire perché se dico “negro” (traduzione del latino “niger”) sono razzista, mentre se dico “nero” sono bravo e buono. Mistero. Ma questi sono dettagli. Piuttosto vorrei chiedere: chi è il vero razzista: un Tavecchio che dice una frase infelice, o chi favorisce un’immigrazione indiscriminata di negri o bianchi che siano, per mostrarsi bravo e buono e così non fa altro che dare false speranze a masse di disperati, che approdano in un paese che non è più in grado di dare lavoro e pane nemmeno ai suoi cittadini? Non sono razzisti questi ipocriti che si fanno belli con operazioni come “Mare Nostrum” (con tutto il rispetto per i militari, che devono eseguire degli ordini), vero festival dell’incoscienza più totale, che spinge ogni giorno centinaia (o migliaia) di disperati a mettersi in mare e a trovare spesso la morte? Non sono razzisti questi predicatori dell’accoglienza – purché la facciano al solito “gli altri” – che usano queste moltitudini di immigrati, negri o bianchi o gialli che siano, per auto premiare la loro incommensurabile bontà? Bontà costruita sulla sofferenza e sulla pelle degli altri. Signori, smettiamola di dire idiozie a ruota libera. O siete ipocriti o siete ormai del tutto fuori di testa. Il vostro buonismo demente – buonismo a senso unico, perché quando volete essere spietati sapete esserlo perfettamente – è vero razzismo. I poveri, i diseredati, i negri che fuggono disperati dalle loro terre, e che voi imponete di accogliere a occhi chiusi, sono la vostra merce per abbellire la vostra immagine. Promettete ciò che sapete di non poter mantenere, incentivate col vostro cinismo i cinici mercanti di carne umana e poi vi permettete di dare lezioni di morale a un uomo che ha detto una frase infelice? Avete creato tutte le condizioni perché gli italiani, che razzisti non sono mai stati, lo diventino ora, di fronte allo spettacolo di città invase da immigrati che si trovano a vivere alla disperata e alla fine, fatalmente, per delinquere. Meraviglioso risultato della misericordiosa accoglienza fatta alla cieca, senza mai chiedersi dove e come sistemare tanti sbandati, profughi, rifugiati e anche tanti personaggi che magari sono fuggiti dai loro paesi semplicemente perché delinquenti. Ma a voi che ve ne frega? Voi li avete accolti, quindi siete buoni e bravi e democratici. Signor Carlo Tavecchio, non la conosco, non so cosa lei faccia, se lei sia o meno adatto a ricoprire la posizione di presidente della Federcalcio. So che lei ha detto una frase, una frase forse infelice o goliardica. Punto e basta. So che la stanno mettendo in croce per questa sciocchezza. Anche lei è una vittima di quest’orgia di ipocrisia ormai sfociata nella demenza. Non se la prenda, questa è l’Italia attuale, retta dai soloni di una ex-sinistra smarrita e di una ex-destra che cerca di sopravvivere scimmiottando le scemenze della ex-sinistra. È vittima di questa Italia dove i politici ormai hanno fuso il cervello e la Chiesa cattolica è preoccupata di non dare seccature a nessuno e pronta ad accodarsi al coro del politicamente corretto. Signor Tavecchio, lei ha tutta la nostra simpatia e solidarietà.

In difesa di Tavecchio. Quante critiche ipocrite sull’affaire banane, scrive Francesco Maria Del Vigo su “Il Giornale”. L’Italia perbenista e ipocrita ha trovato il suo nuovo mostro: Carlo Tavecchio, classe 1943, candidato alla presidenza della Federcalcio. Questa la frase che ha fatto innalzare i lamenti e scendere le lacrime alle prefiche del politicamente corretto: “Le questioni di accoglienza sono un conto, quelle del gioco un altro. L’Inghilterra individua dei soggetti che entrano, se hanno professionalità per farli giocare, noi invece diciamo che Opti Poba è venuto qua, che prima mangiava le banane, adesso gioca titolare nella Lazio e va bene così”. Apriti cielo: Tavecchio deve rinunciare alla corsa per la presidenza (richiesta più o meno unanime del Partito Democratico), fermatelo! (Giovanna Melandri), non ha credibilità (Davide Faraone, Pd), ha il tipico atteggiamento paternalistico nei confronti di chi si pensa inferiore e da civilizzare (Cecile Kyenge). Solo per riportare alcuni dei commenti più stizziti. Ma in rete, per fortuna, si trovano anche divertentissimi e godibilissimi fotomontaggi che ironizzano sull’infelice battuta. Perché, sia chiaro, la battuta è piuttosto infelice per una lunga serie di motivi (non fa più ridere nessuno da almeno una ventina d’anni, non era l’occasione adatta, Tavecchio non può essere così non accorto da non pensare che le sue parole possano essere usate – strumentalmente – contro di lui). Ma non è una frase che trasforma un uomo in un razzista, non è una battuta – seppur di cattivo gusto – a far cadere su una persona la mannaia di un’etichetta così odiosa. E – diciamo la verità – la sua è una frase che almeno una volta nella vita ci è capitato di sentire, e non abbiamo denunciato o preso a pugni in faccia chi l’ha proferita. Basta con questa ipocrisia e questa dittatura del politicamente corretto. Io non so chi sia Tavecchio, non l’ho mai incontrato e non sono a conoscenza del suo curriculum vitae, magari ci sono decine di motivi per ritenerlo indegno di un ruolo così importante nel mondo dello sport, ma non questa boutade. Quelli che adesso inarcano il sopracciglio inorriditi davanti a cotanta barbarie, sono quelli che spesso trasecolano davanti alle parole, ma non muovono un dito davanti ai fatti. Questo improvvisato, ma ben nutrito, movimento No Tav(ecchio) è il solito salottino che ama indignarsi, che se dici “negro” sei un razzista da bacchettare, stigmatizzare ed emarginare, ma che poi non batte ciglio per aiutare chi è realmente in difficoltà. Sono quelli del venite tutti in Italia, del fiore dell’accoglienza e del multiculturalismo da infilare nell’occhiello della giacca in cachemire, della pelosa beneficenza da esibire e ostentare e dei viaggi in Africa a favor di telecamera (ve la ricordate quella pubblicità in cui Bono, il filantropo, atterrava, sovrastato da valigioni di Louis Vuitton, in mezzo a un prato? Ecco la scena me la immagino così). Poco importa che poi in Italia non ci siano le condizioni per poter offrire una vita decorosa a questa folla di disperati. A loro interessa solo, lustrandosi le unghie, aprire le porte di una casa che non è certamente la loro. Perché poi quando il “negro” dorme nel portico del loro palazzo, sono i primi a chiamare la polizia. Insomma, il razzismo è una questione di fatti. Non di parole. Le battaglie politiche contro le parole sono sterili e sciocche. Tavecchio è scivolato su una buccia di banana. Ma non facciamone un mostro.

Calcio, zingari e l’ipocrisia del vocabolario. Se dai del banana al Cavaliere sei un sincero democratico dotato di senso dell’umorismo, se dai del banana a un africano sei un grandissimo bastardo, scrive Vittorio Feltri su “Il Giornale”. Il nostro eccellente Giuseppe De Bellis si è già esibito sul Giornale scrivendo cose giuste sul caso Carlo Tavecchio, un cognome che ha una componente offensiva: in una società nella quale l’unico settore che non cala, bensì cresce, è la chirurgia plastica, accompagnata da terapie antiossidanti e roba simile, evidentemente la vecchiaia è considerata un’infamia. Chiedo scusa se mi cito. Su Twitter – la palestra dell’insulto elevato a categoria del pensiero – vi sono numerosi gentiluomini che, quando non sono d’accordo con me, non si limitano a dirmelo: mi coprono di contumelie fra cui spiccano quelle riferite alla mia non verde età, tipo «vecchio stronzo», «vecchio rimbambito», «brutto vecchio, cedi il tuo posto privilegiato a un giovane», «vecchio bollito» (la variante è «brasato»). La parolaccia è entrata prepotentemente nei conversari correnti e quella che ferisce di più è «vecchio porco». Una volta si chiamavano «vecchi» i genitori, e nessun papà e nessuna mamma si adontavano. Ma oggi il sostantivo/aggettivo «vecchio» ha un significato talmente negativo da essere impronunciabile. Provate a dire a una signora che è vecchia: vi mangia vivi per dimostrare di avere ancora denti buoni e un’ottima digestione. Torniamo a Tavecchio. Lo sciagurato, aspirante presidente della Federazione italiana giuoco calcio, in un discorso programmatico in cui ha espresso concetti condivisibili, si è lasciato scappare una frase che i più moderati hanno giudicato infelice. Questa, all’incirca: «Nel nostro Paese i club pedatori trascurano i giovani e inseriscono nella rosa dei titolari ragazzi modesti che fino a ieri si nutrivano di banane». Vogliamo esagerare? Non si è trattato di proposizione elegante, ma simile a mille altre che quotidianamente si odono in ogni ambiente. Anche nei giornali. Per esempio: il soprannome più diffuso di Silvio Berlusconi è il Banana, che viene usato regolarmente su giornali e in spiritosissimi (si fa per dire) programmi televisivi satirici. Dal che si evince che c’è Banana e banana. Se dai del banana al Cavaliere sei un sincero democratico dotato di senso dell’umorismo, se, viceversa, dai del banana a un africano abbronzatissimo sei un grandissimo bastardo, sinonimo delicato di figlio di puttana. E ti espellono dal consorzio civile. Mi domando: come mai la banana ha una doppia reputazione a seconda di chi la mangia o, meglio, la interpreta? Trattasi peraltro di un frutto nobile, buono, nutriente e, fino a mezzo secolo fa, raro, il che lo rendeva prezioso. Quando ero bambino, soltanto Babbo Natale provvedeva a regalarmene una (di numero) per allietare la mia povera mensa. La trovavo la mattina sul tavolo della cucina accanto a due o tre pipe di zucchero rosso, un paio di arance e un’automobilina di latta. Se non ricordo male, c’era tra quel bendidio anche qualche carruba: forse non è un dettaglio importante per voi che leggete, ma, a mio avviso, rende l’idea del mondo in cui vivevamo, ammesso che ciò sia interessante. Ecco. Abbacinato dai doni piovuti dal cielo, rimanevo in contemplazione dei medesimi per alcuni minuti, poi afferravo la banana, la incartavo e la portavo a un vicino di casa che sapevo esserne golosissimo. Suonavo alla sua porta e non appena egli si affacciava gli porgevo il frutto. Lui mi abbracciava e ringraziava. Per me era una soddisfazione, anche se non ero iscritto all’Arcigay. Il costume è mutato. Se oggi facessi omaggio di una banana all’inquilino del mio piano, sarei preso a calci nel deretano (eufemismo di culo). Tavecchio ha 71 anni, quanti ne ho io. Sono certo che per lui, come per me, la semantica bananiera non ha alcuna valenza respingente. Sarebbe assurdo il contrario. Constato che ormai in Italia non si discute più sui contenuti, ma sull’involucro lessicale. Personalmente, ai tempi in cui gli extracomunitari furono malmenati e sfruttati a Rosarno (Calabria), pubblicai questo titolo sul Giornale : «Hanno ragione i negri». Non l’avessi mai fatto. Le penne di lusso, su numerosi quotidiani, mi redarguirono aspramente. Pier Luigi Battista del Corriere mi crocifisse. L’Ordine dei giornalisti mi processò dopo avermi tenuto sotto inchiesta quattro anni: fui assolto, e me ne stupii piacevolmente. Avevo dato la causa per persa, poiché nessuno aveva letto l’articolo che difendeva i poveracci: tutti si erano soffermati con indignazione solo sul termine «negri». Il nostro direttore Alessandro Sallusti è pure stato sottoposto a procedimento disciplinare (si attende la sentenza) perché ha chiamato zingari gli zingari. E come doveva chiamarli? Extraterrestri? Le fobie linguistiche contrassegnano la nostra epoca politicamente corretta, forse, sicuramente imbecille. I netturbini non sono più spazzini, anche perché non spazzano una mazza, ma operatori ecologici. Guai a non attenersi al nuovo bon ton. Magari non ti denunciano, ma ti sputtanano, ti danno del razzista. Veniamo ai sordi. Che non sono più tali anche se non sentono: meritano l’appellativo di audiolesi. Tra poco definiremo così gli impotenti: tirolesi. Ovviamente gli orbi non sono orbi ma ipovedenti. E i ciechi non sono ciechi ma non vedenti. Con angoscia mi chiedo: come posso etichettare uno stitico seguendo lo stesso metodo glottologico? Sono in imbarazzo. Il vituperato Tavecchio immagino sia sorpreso dal trattamento ricevuto per avere detto la verità con parole sue, brutte ma chiare. Condannato per una banana. Non è serio. Anche perché egli ha centrato il problema. Il nostro calcio è in declino in quanto esterofilo: apre le porte all’Africa e le chiude alla Campania e al Friuli, vivai di campioni o almeno di ottimi giocatori. Anche all’estero hanno arricciato il naso per le banane di Tavecchio. Ridicolo. Noi italiani, anche orobici, valdostani e veneti, veniamo dileggiati con i soliti luoghi comuni: spaghettari, mandolinari, pizzaioli. E ci tocca stare zitti o, al massimo, sorridere. Se però evochiamo la banana siamo rovinati. E i primi a rovinarci sono i nostri compatrioti spaghettari della malora.

Italiani ipocriti, come se il problema del calcio fosse solo una banana.

La follia dell’accesso allo stadio in Italia: storia di una domenica pomeriggio qualsiasi, scrive Leonardo Daga. E’ mattina presto, è la befana. Non cerco vicino un camino che non ho se ho regali nella calza, cerco solo le mie cose per proteggermi da un freddo che non ci sarà e partire alla volta di Parma. C’è una partita, Parma-Toro, che il Toro perderà meritatamente, ma non è questo il punto. Io parto da una località sulla costa Marchigiana, 390 Km di autostrada destinazione Parma, appuntamento con i miei amici di Roma nei pressi di Bologna per andare insieme allo stadio. A loro tocca percorrere circa 460 Km. Non ci spaventa. Non abbiamo i biglietti, la società che li emette ha chiuso l’emissione negli ultimi giorni per motivi non precisati, anche ai detentori della tessera del Tifoso. Abbiamo deciso di andare lo stesso, come l’anno scorso faremo i biglietti per la curva dei tifosi locali e poi ci faranno entrare lo stesso nel settore ospiti… tipica follia italiana. Arriviamo un’ora prima al casello, la polizia ferma le macchine e ci costringe ad entrare in un parcheggio nei pressi del casello di Parma. Dobbiamo prendere un autobus per arrivare allo stadio, per motivi di sicurezza e perché nei dintorni dello stadio non ci sono abbastanza parcheggi per le macchine. Non ci scomponiamo, siamo abituati in quanto tifosi a questo essere trattati da extracomunitari appena approdati a Lampedusa. Aspettiamo pazienti, non siamo tifosi turbolenti come gli steward dicono essere i tifosi dell’altra squadra di Torino. Ma passa il tempo, molto tempo. Mezz’ora ad aspettare, ci giungono voci di file ai botteghini, incomprensibili. Ci chiedono quanti di noi non hanno il biglietto, pensiamo che sia perché ce li vogliono mettere da parte in biglietteria, ma non è per questo. La polizia che fa i fatti propri, noi che ci lamentiamo ma cerchiamo di mantenere la calma. Si parte finalmente. Lo stadio è al centro della città, la città viene bloccata al passaggio dei tifosi, un servizio di almeno 6-7 poliziotti ci fa da scorta manco dovessimo recarci ad un penitenziario. Arrivo allo stadio. Ci rechiamo alla biglietteria sotto il settore ospiti. I biglietti sono in vendita solo per i possessori della tessera del tifoso. Bisogna andare alla biglietteria della tifoseria locale. E’ una follia. Corriamo, una lunga fila si prospetta davanti a noi, per la maggior parte tifosi del Parma, la fila avanza lenta perché i terminali funzionano male o gli operatori non sono sveglissimi. Inizia la partita, noi abbiamo ancora una ventina di persone davanti a noi. Ci giunge notizia del gol di Immobile, è il 20′ minuto. Siamo contenti per il risultato ma siamo ancora fuori, ancora 6-7 persone davanti a noi. Facciamo finalmente il biglietto, è il 30′ minuto, ci chiedono il documento ma non il codice fiscale, quindi praticamente il controllo riguardo ai diritti di accesso è nullo. Facciamo il biglietto per la curva del Parma perché non si può fare il biglietto per la curva ospiti, ma poi corriamo in quella ospiti e ci fanno entrare lo stesso. La partita non è stata un granché, il Toro viene recuperato e sorpassato come succede spesso negli ultimi anni a Parma, ma non è questo il punto. La partita allo stadio è solo uno spettacolo ma i tifosi vengono trattati come se fossero dei criminali. Qualcuno dovrebbe chiedersi se questa è la ragione per cui molta gente smette di andarci. Qualcuno dovrebbe chiedersi quanto i comuni che ospitano queste manifestazioni perdono economicamente perché la tifoseria ospite viene trattata come un bagaglio scomodo da fare entrare ed uscire velocemente dalla città piuttosto che ospitarla a dovere e promuovere l’immagine della città. Qualcuno dovrebbe chiedersi questo, non solo i politici locali, anche gli stessi responsabili (all’interno del club) dei rapporti con le tifoserie. Soldi e opportunità buttati al vento, in città italiane che avrebbero tanto da offrire e che invece mostrano solo sbarre e polizia.

Caro Direttore, (scrive Giuseppe di Paola a Xavier Jacobelli) conosciamo tutti le traversie che sta passando il nostro calcio, a livello sportivo e dirigenziale. Eppure tutti i disastri letti ed ascoltati in questi giorni non sono nulla rispetto a quanto mi è capitato la settimana scorsa.Vado a rinnovare l’abbonamento della mia squadra del cuore, armato di personale Tessera del Tifoso, modulistica, autorizzazioni e visti che manco andassi in guerra. Con l’occasione, e sfidando i rimbrotti della mia famiglia, penso sia arrivato il momento di regalare il primo abbonamento a mio figlio, che a 9 anni comincia ad appassionarsi al calcio. Mi piace l’idea di tramandare la passione, come mio nonno e poi mi padre hanno fatto con me. Altra modulistica, documento d’identità, segnalazione delle generalità dell’accompagnatore, ma … la signorina del box office mi chiede: “Dov’è la Tessera del Tifoso del bambino?”. “Come, scusi? Ma è un bambino di 9 anni, che Tessera del Tifoso dovrebbe avere? Le garantisco che non ha carichi penali”. “Mi spiace, ma l’abbonamento si carica nel chip della Tessera del Tifoso, ed in mancanza di questa non posso fare a suo figlio alcun abbonamento”. Ma come, i bei discorsi sull’avvicinare le famiglie allo stadio, riempire le curve di bambini appassionati che saranno la nuova linfa dello sport … Tutte balle.  Obbligare un bambino ad avere la Tessera del Tifoso è spregevole. Chi ha generato questo mostro giuridico non ha mai messo un piede allo stadio, e se l’ha fatto è per andare dritto in Tribuna Elite, con tanto di scorta. Vergogna. Altro che banane. Un papà deluso e scoraggiato.

Dr Antonio Giangrande

Presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie e di Tele Web Italia

www.controtuttelemafie.it e www.telewebitalia.eu

099.9708396 – 328.9163996

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IL CALCIO: LA REPUBBLICA DELLE BANANE E LA TESSERA DEL TIFOSO.ultima modifica: 2014-08-06T16:44:57+02:00da rassegna-stampa
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